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|RECENSIONE| Big Ray - Michael Kimball

febbraio 06, 2020










Big Ray è morto, ma il suo ricordo è tanto ingombrante e pesante quanto il suo corpo da vivo. Il figlio ne ricostruisce la vita alternandosi tra passato remoto e passato recente, tra i ricordi di un'infanzia violenta e le prove di riavvicinamento e comprensione dell'età adulta, nel tentativo di decifrare le origini della rabbia del padre e i fattori scatenanti della sua obesità. "Big Ray" è un romanzo al tempo stesso sconcertante e toccante che offre una serie di squarci nella complessa elaborazione di un lutto e dei traumi di un'infanzia schiacciata dalla paura. È raccontato con una voce schietta e a tratti ironica, in uno stile di scrittura molto originale, aneddotico e fotografico, che scompone la narrazione in oltre 500 brevi paragrafi staccati: come a rappresentare la natura frammentaria dei ricordi, ma anche il timore di ricordare tutto, l'incapacità di gestire, tutto insieme, il carico emotivo dei traumi infantili. Con questa opera, Michael Kimball si conferma come scrittore di grande talento, di incredibile profondità e dallo stile unico, e torna a essere pubblicato in Italia dopo "E allora siamo andati via" (Adelphi).













C’è un momento in cui si ha bisogno, davvero bisogno, della figura genitoriale.
Di essere capiti, sorretti moralmente, di ricevere i giusti elogi e rimproveri, di essere semplicemente amati.
Ma non tutti vivono in famiglie felici, e si portano dietro traumi e dolori che vorrebbero solo dimenticare.
Questo è il caso di Michael Kimball, che con Big Ray e tramite il suo protagonista Daniel ricostruisce e frammenta episodi della sua vita tra cinquecento mini paragrafi dopo la morte del padre.



Big Ray è una personalità ingombrante, fisicamente e psicologicamente.
È obeso, fallito e sfoga le sue frustrazioni sui più deboli.
È la personificazione della cattiveria, qualcuno da cui fuggire più lontano possibile per respirare.
Ma come si fa a fuggire via dal proprio padre, quello che tanto si riconosce che sbaglia ma di cui si cerca sempre – anche inconsciamente – l’approvazione?



Kimball, con una scrittura forte, potente, innovativa, cruda e priva di censure, si immerge volontariamente nell'abisso di dolore del vissuto e del lutto e ne analizza lucidamente ogni aspetto, cercando di far chiarezza nella sua mente del perché suo padre abbia agito come un despota e non come un genitore amorevole, quasi come se lo vedesse come un rivale e non una sua creatura. E, anche se vi è un rapporto di odio/amore, Kimball viene dilaniato dal dubbio che la credenza popolare del “tale padre tale figlio” riguardi anche lui.
Del resto, se è cresciuto in quel contesto, non si troverà automaticamente a replicare ciò che ha subìto?



È facile associare la dinamica familiare di Daniel, il protagonista, a quella di Gregor Samsa di kafkiana memoria che, con la sua Metamorfosi, ha lanciato uno straziante grido d’aiuto che ancora risuona nelle orecchie dei lettori dopo anni dalla pubblicazione. Eppure una differenza c’è, nonostante la similitudine: sebbene entrambi vessati dai genitori, il protagonista di Kafka non possiede la forza di rinascere dalle sue ceneri, di svincolarsi totalmente dal genitore – ne è testimone la mela ammuffita conficcata nel corpo; il protagonista di Kimball invece dedica il libro a suo padre e ne sviscera comportamenti e azioni per cercare di capire se dalla sua sofferenza potrà nascere qualcosa di buono. E si chiede se, nonostante tutto, la morte del padre non sia un bene per la sua realizzazione personale e non gli permetta di fare qualcosa che, diversamente, gli sarebbe stato precluso.



Big Ray è un libro che spezza, che fa male, ma è quel dolore che serve per rinascere più forti di prima. È un libro necessario, di cui non sarà mai facile parlare ma che resterà nel cuore e donerà nuova forza e nuova consapevolezza: essere sopravvissuti è il punto d’inizio per liberarsi dalla prigione di dolore in cui ci si era (o ci si era stati) rinchiusi. 





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|RECENSIONE| iI convalescente - Jessica Anthony

novembre 10, 2019








Un omino barbuto e muto vende carne da un autobus guasto nel mezzo di un prato in Virginia: il suo nome è Rovar Ákos Pfliegman ed è l'ultimo Pfliegman rimasto sulla faccia della Terra. L'autobus è anche la sua casa, e l'unica compagnia che ha è un grosso scarabeo domestico. "Il convalescente" è il racconto della vita grottesca e solitaria di Rovar, tempestata di sfortune e acciacchi, e allo stesso tempo è la narrazione di migliaia di anni di storia ungherese, tormentata dalla costante e fastidiosa presenza della inetta tribù dei Pfliegman.













C'è questo omino muto, barbuto e zoppo che vende carne da un autobus guasto nel bel mezzo di un prato in Virginia. Gli acquirenti comprano da lui perché sono incuriositi, perché sembra quasi un fenomeno da baraccone, ma dietro l'esteriorità c'è l'identità di un uomo: Rovar Ákos Pfliegman, ultimo discendente dell'antica stirpe dei Pfliegman (una delle meno nobili casate di quella che oggi chiamiamo Ungheria e condannata a sbagliare senza mai imparare dai loro errori - un chiaro rimando al mondo che, sempiternamente e con presunzione, continua a sbagliare quando basterebbe studiare un minimo di storia). Ma questo loro - gli acquirenti, il gestore del supermercato, la pediatra, tutti gli altri - non lo sapranno mai, perché Rovar non parla. 
Ma parla al lettore, e ciò che racconta è surreale: una storia ricca di quella particolare personalità che, altrimenti, sarebbe finita nell'oblio insieme alle sue considerazioni, le sue battute, il suo passato e quello degli antenati e la sua visione della vita.


Lo scopo di Jessica Anthony è chiaro: dà voce agli invisibili, gli esseri viventi che vivono ai margini della società (e del mondo) che non possono esprimersi, ma dentro di loro c'è un universo di vissuto degno di essere conosciuto. Ma la cosa pregevole è che lo fa senza intenti moralizzatori: Rovar c'è, esiste, ha una voce che viene, adesso, custodita anche dal lettore. 
Semplicemente.
Ed è questo tratto del libro che porta chi legge a riflettere: quanta gente pensiamo di conoscere e poi, invece, scopriamo che ci veniva detto solo quello che volevamo sentirci dire? 
Quante volte abbiamo creduto di ascoltare le parole del nostro prossimo quando, invece, stavamo solo sentendo?



Il convalescente - portato in Italia dalla Pidgin Edizioni che, tramite copertine attraenti e cura maniacale, regala storie che arricchiscono la mente - custodisce il sapere di Rovar, ma è il lettore a dover fare tesoro di ciò che emerge da una personalità atipica, quasi borderline, e che merita di essere letta - ed ascoltata - col cuore.






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|RECENSIONE| canta spirito, canta - Jesmyn Ward

novembre 10, 2019










Jojo ha tredici anni, e cerca di capire cosa vuol dire diventare un uomo. Vive con la madre Leonie, la sorellina Kayla e il nonno Pop, che si prende cura di loro e della nonna Mam, in fin di vita. Leonie è una presenza incostante nella vita della sua famiglia. È una donna in perenne conflitto con gli altri e con se stessa, vorrebbe essere una madre migliore ma non riesce a mettere i figli al di sopra dei suoi bisogni. Quando Michael, il padre di Jojo e Kayla, esce di prigione, Leonie parte con i figli per andarlo a prendere. E così Jojo deve staccarsi dai nonni, dalla loro presenza sicura e dai loro racconti, che parlano di una natura animata di spiriti e di un passato di sangue. E mentre Mam si spegne, gli spiriti attendono, aggrappati alla promessa di una pace che solo la famiglia riunita può dare. Dopo "Salvare le ossa", Jesmyn Ward torna nel suo Mississippi, una terra in cui il legame con le origini, i vincoli di sangue e la natura sono fatti di amore e violenza, colpa e speranza, umanità e riscatto.










Canta spirito, canta è la storia di una famiglia spezzata dal razzismo, i cui reduci vedono spiriti, percepiscono presenze e animali, e cercano di sopravvivere ognuno a modo loro, uniti solo dalla sofferenza portata dal colore della loro pelle e che vivono a Bois Sauvage, un luogo dove nulla viene risparmiato a chi nasce con una diversa etnia. 


Secondo di una trilogia, Canta spirito, canta riporta il lettore a Bois Sauvage dopo il primo capitolo Salvare le ossa.
Jesmyn Ward, con il suo stile limpido, incisivo e privo di fronzoli, attraverso diversi POV riesce a caratterizzare perfettamente ognuno dei personaggi rendendoli tridimensionali e reali, talmente tanto che, a lettura ultimata, sarà difficile lasciarli andare.


Il romanzo parla di amore in tutte le sue declinazioni, pregiudizi, razzismo, misticismo, dipendenza da droghe, povertà e lutti non superati approfondendo nel modo giusto le varie tematiche, senza moralismi e senza calcare la mano. E ciò è uno dei maggiori pregi di un libro che, anche facente parte di una trilogia, può essere benissimo letto come volume a sè stante e che saprà emozionarvi e far riflettere.





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|RECENSIONE| yolo - clarissa tornese

novembre 10, 2019









«Sono stanca di essere sempre la sfigata della situazione! Quella che si fa male, quella che prende le inculate, quella che se c’è una fila viene superata, quella a cui danno il resto sbagliato e a cui fregano il parcheggio sotto il naso. Quella che, anche quando non c’è, è colpa sua se le cose vanno male. Sono da sempre la tipa che le prende, e forte anche! Sono, sono… ecco! Sono come gatto Silvestro, o Willy il Coyote, o come quello stupido di Paperino! Io nella vita per una volta, una volta soltanto, vorrei essere quel cazzo di Titti!»Yolo, you only live once; si vive una sola volta. Tra sbronze, incidenti stradali, arresti, serate ambigue e loschi maneggi con soggetti poco raccomandabili, Vicky movimenterà la sua vita fino al punto di capirne (o quanto meno ipotizzarne…) il vero valore.










A diciotto anni si è convinti che, arrivati ai trenta, si avrà una casa, famiglia, libri, auto, viaggi e fogli di giornale. Ma cosa succede quando ci si arriva davvero e...non è così?
Si perde il lavoro (ammesso che si sia mai avuto) e si vede sfumare l'opportunità del miraggio di un contratto a tempo indeterminato (tanto mica ci arrivi alla pensione, figurati alla sociale!), ogni uomo/donna che si incontra è affetto/a dalla sindrome di Peter Pan e sta passando esattamente come te da un ufficio di collocamento ad un altro o lottando contro la Partita Iva perché è un/a libero/a professionista e sa già che, anche lavorando per tutta la vita, andrà in pensione mai...quindi addio pensiero di formarsi una famiglia.
Cosa resta?
Vivere alla giornata, e YOLO è l'unica soluzione.


YOLO (you only live once - si vive una volta sola) è il motto dei trentenni di oggi, in cui da un lato ci sono le vittime di una società che vuole gli apprendisti commessi con esperienza ventennale e dall'altro i bamboccioni, descritto con ironia da Clarissa Tornese che, grazie al titolo del suo nuovo romanzo, mette a nudo i drammi di Vicky, l'incarnazione della trentenne-bambocciona abituata ad avere tutto (anche un posto di lavoro che snobba) e che, fortunatamente, comprenderà i suoi errori e imparerà che la vita è bella nonostante tutte le sventure per ritrovare se stessa.


Ci si diverte, si riflette sul senso della vita e si vede la realtà dietro le parole di questo romanzo che è di una realtà unica (nonostante alcune trovate che, seppur ilari, restano delle forzature) e pienamente apprezzabile, manco a dirlo, dai trentenni odierni.





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|RECENSIONE| Mai al sicuro - Andrea Clementini

settembre 16, 2019











Racconti che spiazzano e disorientano, nei quali nulla è come sembra. Fantasie che diventano realtà, incubi ricorrenti che hanno visi ben conosciuti, maghi e streghe, giochi di ruolo si combinano per ricordare che, nella vita, siamo tutti in pericolo...











Sono diversi i temi dei tredici racconti - magia, giochi di ruolo, amori non corrisposti, leggende, omicidio, suicidio e molto altro - inclusi in Mai al sicuro.


Andrea Clementini è giovane e sa di scrivere bene, come si evince dalla lettera finale al lettore, rendendo partecipe il lettore delle varie vicende che vivono i personaggi - sebbene siano presenti dei refusi nel testo - e sapendo spaziare tra vari generi con agilità. 


L'atmosfera dei tredici racconti è cupa, in alcuni casi folle, dai toni abbastanza pessimistici in un mix di realtà e fantasia che si mescolano fino a diventare l'uno l'essenza dell'altro. Ma l'intento chiaro di Clementini è quello di donare speranza: la luce in fondo al tunnel c'è, e basta poco per raggiungerla - dove "poco" sta per "lotta e vivi per vivere una vita piena, senza mai dimenticare che tutti stanno combattendo una battaglia" e che comunque, dietro alla facciata che si mostra in pubblico, c'è un lato nascosto in chiunque. 


Molto interessante è il lato introspettivo di ogni racconto: entrare in empatia con i vari protagonisti è facile, dato che le loro emozioni sono descritte in maniera realistica, complice lo stile diretto e colloquiale adottato da Clementini, e comunque ci si trova a riflettere su quanto i nostri gesti incidano sulle altrui esistenze.


Se vi piacciono le raccolte di racconti potrebbe intrigarvi, ma fate attenzione ai sogni nascosti: potrebbero avverarsi...e non sarete mai più al sicuro.







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